Accadde oggi!
“Ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen” scrisse Jon Landau, responsabile dell’area recensioni di Rolling Stone e imminente manager del Nostro, dopo averlo visto all’Harvard Square Theatre di Cambridge, Massachussets, il 9 maggio del 1974. Una frase scolpita nella memoria collettiva che la Columbia non tarderà a sfruttare durante la promozione del best-seller “Born To Run”, l’epicentro del terremoto Springsteen nei territori degli appassionati rock e delle copertine in contemporanea su “Time” e “Newsweek” (cose mai viste). Difficile il ruolo del Boss se non hai spalle larghe e orgoglio taurino, rischi la fine di un Charlie Cappa qualsiasi altro che “nuovo Dylan”.
Landau, divenuto produttore e complice dell’uomo di Freehold, fu la causa del duro contenzioso con Mike Appel, controverso pigmalione responsabile sia d’aver portato il 23enne Bruce davanti al padreterno John Hammond (colui che scoprì Billie Holiday, Count Basie, Aretha Franklin e Bob Dylan, pensate un po’) che del discutibile missaggio di “Greetings From Asbury Park”. E soprattutto di una gestione azzardata del suo assistito in rampa di lancio. Una vicenda che lascerà non pochi strascichi e amarezza nel cantautore del New Jersey: soltanto dopo aver sistemato la questione Appel, tramite una buona uscita, un disilluso Springsteen avrebbe finalmente interrotto il lungo periodo d’inattività discografica per dare seguito all’album di “She’s The One” e “Jungleland”. Intanto la E-Street Band ufficializzava dal 20 luglio ’75 l’ingresso in pianta stabile del chitarrista Steve Van Zandt, vecchia conoscenza del Boss negli adolescenziali Steel Mill, trovando la sua compiuta e implacabile chiusura del cerchio nella classica formazione con Max Weinberg alla batteria, Roy Bittan al piano e cori, Danny Federici all’organo, Garry Tallent al basso e lo scenografico “Big Man” Clarence Clemons al sax. Un formidabile magma sonoro d’infuocato rock’n’roll, che dal vivo sfoderava in ciclopiche scorribande di almeno tre ore tutto l’amore del leader per il soul e rhythm and blues ascoltati da ragazzo.
Nell’arco dei tre anni in stand-by per vertenze legali, e a fronte delle incessanti e già leggendarie esibizioni live sui palchi del nord-america, Bruce incise tantissimo materiale (tra cui l’album mai pubblicato “The Promise”, una “Fire” pazzesca gentilmente concessa a Robert Gordon, “Heart Of Stone” donata a Southside Johnny, “Rendezvous” a Gary U.S.Bonds e la celebre “Because The Night” scritta con Patti Smith) ma era spesso insoddisfatto del risultato, nell’estenuante ricerca del mixing perfetto che potesse ricreare l’incendiario feeling dei concerti con la E-Street Band, la più oliata macchina da guerra rock in circolazione. Arrivato a umani compromessi grazie al buon senso di Landau, sul finire del ’77 Springsteen decise di trasferirsi con la band ai Record Plant Studios di New York, e registrò daccapo le nuove tracce che avrebbero costituito l’ossatura dell’atteso quarto lavoro. “Darkness On The Edge Of Town” vide infine la luce nel giugno 1978, prodotto da Jon Landau e Springsteen con i fidati Jimmi Iovine e Chuck Plotkin tecnici del suono.
Nelle parole di Bruce “Darkness On The Edge Of Town” rappresentava, attraverso un filo conduttore di malcelata inquietudine, “…un disco che scende a patti con la disperazione, persone che cercano di aggrapparsi alla propria dignità in mezzo a un uragano. Parla di gente che tenta di liberarsi…” Non è difficile intuire cenni anche autobiografici, quei fantasmi personali che all’epoca lo confondevano fino alla strana sensazione di “sentirsi così bene e così male nello stesso tempo”. Se “Born To Run” era l’irruente, tenero e nostalgico “American Graffiti” di Bruce Springsteen, “Darkness” aveva lo sguardo realistico e desolato di “Furore” e John Steinbeck. Il Sogno Americano è morto con Kennedy, il Vietnam e Nixon, e probabilmente non è mai esistito. Non c’è redenzione in queste lande cattive per i derelitti e perdenti dell’altra America. La poetica springsteeniana della fuga e del riscatto dalla mediocrità di una qualunque provincia americana (che ebbe nei giorni “nati per correre” la sua sublimazione) è giunta tristemente a fine corsa. Bruce da allora fu “l’eroe della strada” di tutte quelle persone a cui una “Thunder Road” sembrava avesse strappato brandelli della loro stessa vita, in equilibrio precario tra volontà e fallimento.
Proprio di quest’ultime anime perse è popolato “Darkness On The Edge Of Town”, la definitiva presa di coscienza dell’autore che nel cammino all’età adulta corrisponde una perdita dell’innocenza inevitabile e dolorosa, figlia di spietate “Badlands” che in pochi hanno il coraggio di lasciarsi davvero alle spalle. La voce tesa e vibrante del Boss irrompe nel ritmo sostenuto di una drammatica batteria in levare e delle sciabolate di chitarra da nervoso Bo Diddley elettrico, e l’atmosfera è livida, intensa. Magari chi prova a evadere cerca ancora un’utopica “terra promessa” in cui credere (il folk-rock e armonica dylaniana di “The Promised Land”), nonostante anche Mary abbia imparato da tempo che la purezza è merce preziosa solo nei sogni e che il paradiso non appartiene a questo mondo. “Adam Raised A Cain” è un grande rock-blues (ispirato nelle liriche bibliche al film “La Valle Dell’Eden”) con la E-Street Band che scalda i muscoli a pieno regime, l’aspro riff delle chitarre e il liberatorio urlo strozzato in gola di Bruce, pieno di rabbiosa negritudine soul. La celebrazione della notte custode di miti e gioventù bruciate è ora uno sbiadito ricordo in bianco e nero (la dolente ballata “Something In The Night”, i pieni e vuoti elettrici di quelle “Streets Of Fire” oscuro rifugio di corridori notturni senza meta, proiettati verso il nulla), un prezzo troppo alto da pagare “per un anello d’oro e un bel vestito blu” in “Prove It All Night” (“…You hear the voices telling you not to go…They made their choices and they’ll never know what it means to steal…To cheat, to lie what it’s like to live and die…”), una fotografia lasciata per sempre nei cassetti della “Candy’s Room”, sfrenato carosello rock aperto da un recitato loureediano che poi deflagra su rullate convulse e assoli arrugginiti.
Nella strada tempio sacro di amori e impeto giovanile, corse in auto con una Chevy del ’69 e bravate si riflette la struggente malinconia dei dolci rintocchi di piano in “Racing In The Street”, uno dei vertici assoluti del rocker di Hoboken, New Jersey, un inno sommesso che travalica il semplice significato di “canzone” per farsi epico romanzo formativo prima del Watergate e del buio alle porte. Quel buio che inghiotte i margini della città e avanza minaccioso sul ciglio delle nostre vite (“…lives on the line where dreams are found and lost…”), il cuore di tenebra che infetta l’anima nella laica preghiera finale della title-track. “La Rabbia Giovane” di Kit e Holly non è più un gioco spensierato, un viaggio romantico on the road, ormai ha i contorni irrazionali dell’incubo. Ma forse una via d’uscita è possibile, forse la speranza è lungo la riva del fiume in cui “…lavare dalle nostre mani questi peccati…”
Grazie per avermi fatto ricordare questa data … indimenticabile (in teoria) !!
unforgettable album