22 Maggio 1997, Bruce Springsteen al Teatro Augusteo di Napoli

Accadde Oggi!


Il 22 maggio è il giorno in cui si festeggia la nascita del nostro Fan Club. La data ovviamente non è casuale e coincide con quella della storica serata in cui Bruce si esibì nel 1997 all’Augusteo e che culminò in piazzetta nel modo memorabile che tutti gli springsteeniani (napoletani e non) conoscono perfettamente! Tutto quello che accadde fa parte ormai della Storia, scritta sui giornali dell’epoca, recensita più volte, riportata sui libri o da video rubati in sala o all’esterno a testimonianza di quanto avvenne.

Ma è anche vero che ognuno di noi  ha la sua storia personale legata a quel fantastico giorno, certamente inedita, non documentata, stampata indelebilmente solo nella nostra memoria: un diario di quelle ore precedenti allo show,  fatto di atti semmai consueti e insignificanti che, caricati dall’emozione e dall’adrenalina di quanto ci aspettava, sono magicamente stampati a fuoco nei nostri ricordi.

E’ quanto succede quando capita di vivere eventi di una portata emotiva tale da investire di significato gesti e azioni quotidiane che invece diventano speciali perchè vissuti in funzione di qualcosa che sai per certo che si rivelerà speciale. Non c’è da meravigliarsi pertanto, come qualcuno stupito racconta, di aver stranamente memorizzato il vestito indossato quel giorno, particolari, incontri o battute scambiate che hanno preceduto o seguito lo spettacolo. Perchè tutta l’attesa, alla distanza, ha assunto l’aura di un evento epocale, il carattere di un rito preparatorio. E che dire delle emozioni provate durante lo show e l’inaspettato e grandioso doposhow? Personalmente, ricordo ogni dettaglio e ho ancora nettissime  le sensazioni che mi lasciò quella straordinaria esperienza. E se è vero che ognuno ha il suo proprio racconto di quel 22 maggio 1997 , allora potremmo provare a rinarrare attraverso le vostre testimonianze, che speriamo ci lascerete in molti, insieme a fotografie, filmati, chicche, curiosità…: come un mosaico, con tante tessere diverse ma che alla fine ricompongono un quadro che tutti riconosciamo e in cui tutti ci riconosciamo.

E a seguire riportiamo il testo e la traduzione di quanto Bruce raccontò a noi quella sera attraverso le canzoni, le spiegazioni, le battute e le riflessioni che condivise con tutti noi presenti, certi che anche per lui, come ebbe poi a confermare, si trattò di “una serata che [lo] fece felice”.

leggi il parlato di Bruce tradotto in italiano

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E. Labianca, 22 Maggio 1997 – Napoli, in American Skin Vita e Musica di Bruce Springsteen, Giunti Gruppo Editoriale,  Firenze 2000, pp.

Prima parte
Tredici mesi più tardi, Bruce sta preparando lo show di Napoli, il secondo dei due spettacoli italiani previsti per il secondo tour europeo. Un altro paio di spettacoli in Francia e si torna a casa. Il tour acustico sarà storia. Un’ ora e mezza prima del concerto ho la fortuna di essere l’ unico “non addetto ai lavori” ammesso nel backstage del vecchio Teatro Augusteo. Bruce, appena arrivato da Firenze, non ha una stanza d’ albergo (partirà per la Francia la notte stessa con un volo privato per un paio di giorni di vacanza) e si sta preparando in camerino. Mi mescolo all’ entourage di Springsteen e trovo tutti molto rilassati. Barbara Carr, la sua co-manager, ha appena ricevuto due bottiglie di ottimo vino rosso italiano e sembra davvero apprezzare la città. Saluto George Travis che da sempre dirige i tours di Springsteen e che
è stato molto gentile con me quando seguivo quello del 1992-1993 per intervistare Roy Bittan, Crystal Taliafero, Bobby King e il resto del gruppo. Incontro anche Barry Bell della Premier Talent: è l’ agente di Bruce, l’ uomo che ha portato Springsteen in Europa. Veniamo interrotti da qualcuno che cerca di presentarmi a Bruce mentre lui fa il suo ingresso nella piccola sala dove ci troviamo. Stavolta sono certo che si ricorda del nostro precedente incontro a Roma. “Hi” dice tra i denti tirando su le mezze maniche della sua vecchia camicia grigia. E’ vestito nel suo solito stile casual e – fatta eccezione per i capelli pettinati all’ indietro – non è ancora pronto per il look da “grande depressione” che va sfoggiando ultimamente sul palco. Il suo camerino, a un paio di metri di distanza , è molto piccolo, pieno di carte e dischi. Le cinque o sei camicie appese informalmente alla parete e il paio di scarpe sparse nella stanza fanno pensare più al camerino di un attore che a quello di una rockstar. Bruce entra ed esce dalla stanza chiedendo che vengano fatte copie della scaletta che ha appena finito di scrivere di proprio pugno. “Napoli 22/5” si legge, poi le canzoni scelte per la serata: “Ghost”,
“Atlantic”, “Straight” “29”, tutte scritte così come si leggono, e così via. Two Hearts, una canzone che ho sempre amato – e che la sera prima a Firenze mi era sembrata due volte piu bella e importante che mai (ma questa è la forza e la sostanza di molte canzoni di Bruce) – è scritta con il numero 2 seguito da un apostrofo e dal disegno di un cuore. Poco dopo, lo sento chiedere “aiuto” e lo trovo in difficoltà nel tentativo di leggere le parole di O Sole Mio da un vecchio spartito. Tutti l’ hanno senito, quell’ inno alla città di Napoli, cantato da Josephine Baker o da Elvis Presley. Pochi sanno che l’autore della canzone, il cantante napoletano Eduardo Di Capua, la scrisse a Odessa, in Ucraina, sulle sponde del Mar Nero. Era in tournèe e sognava la sua città e il suo sole. Ne scrisse prima le parole e poi la musica alla finestra della sua camera d’ albergo. Anni dopo, nel 1920, durante l’ apertura dei giochi olimpici di Anversa, in Belgio, dopo aver preso lo spartito della Marcia Reale, la banda locale inizò a suonare O Sole Mio, l’ unica canzone italiana nota a tutti. “E’ una canzone melanconica e di speranza, parla di un ritorno a casa alla ricerca delle cose che si amano di più” provò a spiegare a Bruce. “Dovrei cantarla?”. Bruce lo chiede a me e a un’ altra persona che ha provato a tradurgli il primo verso. “Significa che è una bella giornata o qualcosa del genere, no?” chiede. E poi insiste: “Pensi davvero che dovrei cantarla?”. Sono tentato di raccontargli di quando tredici mesi prima a Roma, la melodia da lui scritta per Across The Border mi avevaricordato molte melodie italiane. Ma troppe parole rovinerebbero la spontaneità della sua domanda. Dico soltanto: “Si, se
lo farai in questo teatro la gente diventerà pazza. Vedrai”. La sua attenzione si sposta ora su alcuni CD italiani che tiene sul tavolo. Non so dire se li ha comprati lui a Napoli o se ha chiesto a qualcuno di farglieli avere. Secondo altre voci, sono come regalo da qualche fan. Due o tre sono dischi di vecchie glorie come Sergio Bruni e Roberto Murolo. Artisti, a voler fare un improbabile parallelo, che rappresentano la tradizione e la melodia italiana come Roy Orbison e Chet Atkins rappresentano quelle americane. Alla fine Bruce si chiude in camerino e mentre si prepara per lo show ascolta alcuni di questi vecchi dischi con un lettore portatile. Lo sento provare. Canta la melodia di O Sole Mio. E’ davvero emozionante sentirlo cantare da dietro la porta. Non importa quello che canta, la voce di Bruce mi emoziona sempre – e stavolta non è filtrata da nulla. Non è un nastro e non ci sono altoparlanti tra me e la sua voce. Provai un’ emozione simile anni fa in uno studio televisivo di Roma, dove Jackson Browne stava per suonare un paio di canzoni. David Crosby era in città e venne alla registrazione. Jackson gli insegnò le parti da cantare insieme. Quelle due voci e la chitarra acustica che risuonavano in un piccolo corridoio riempirono un attimo che non potrò mai dimenticare. Subito prima di cominciare, Bruce mi chiede di scrivergli qualcosa in dialetto napoletano per scaldare la folla dopo la prima canzone The Ghost Of Tom Joad. Faccio del mio meglio e corro al mio posto per seguire lo show. Non avevo mai avuto un simile aperitivo prima di un concerto di Springsteen. Mi sento fortunato ma, allo stesso tempo, tutto è molto naturale. Lui è cambiato e lo sono anch’ io. Dieci anni prima sarei stato così scioccato da avere necessità di un dottore. Ora ho solo bisogno di un po’ di buona musica. Seconda parte
C’è un momento dello show che io e un mio buon amico chiamiamo , un po’ irriverenti, “il momento dello sgabello”. Lo prende, Bruce, quello sgabello e diventa ancora più riflessivo. Comincia a parlare molto. E canta davvero col cuore. Quelle quattro canzoni in fila rappresentano la vera finestra sulla sua anima e sul disco che le contiene: Sinaloa Cowboy, The Line, Balboa Park e Across The Border. L’ uomo che un tempo si metteva sulla corsia di sorpasso per correre, ora riduce la velocità. Le parole non sono cambiate ma il tono sì. Quando, nell’ introduzione a Balboa Park, dice che “i bambini sono finestre sulla Grazia del mondo”, non fa altro che ripetere un desiderio espresso in Valentine’s Day e quella scoperta già cantata in Living Proof. Dopo questa sezione, Bruce si allontana per un minuto circa. Il pubblico comincia a gridare per avere dei bis. Questa è la parte dello spettacolo dove come sempre il pubblico si alza in piedi e può accompagnare le canzoni. Stavolta il frastuono ha dell’ incredibile mentre Bruce ritorna sul palco e inizia a intonare una melodia familiare. O Sole Mio evoca altre anime perdute e tanti soldati senza una lapide che non tornarono mai dalla guerra ma che trovarono il tempo per cantare questa canzone lontani da casa. Bruce tutto questo non lo sa ma le emozioni si assomigliano. E’ anche una canzone che parla di giovinezza e di romanticismo. Proprio come Growin’ Up, il cui arpeggio di chitarra interrompe il crescendo alla fine del classico napoletano. Fantastico! La giovinezza del nostro Paese e quella di Bruce in un’ unica miscela. Non posso ragionevolmente aspettarmi di più quando, poco dopo la fine dello spettacolo, corro sul retro sperando di poter salutare
Springsteen ancora una volta. E’ esausto ma felice. Lo vedo sparire dietro la porta del camerino. La gente fuori sta lasciando il teatro e riempie la piccola piazza di fronte all’ ingresso principale. Mentre Bruce si prepara a partire e si è già rivestito, scherza sbirciando dalla finestra, sicuro di potersi godere lo sfollare del pubblico senza essere visto. Da fuori, mentre la gente continua a cantare, qualcuno riconosce la silhouette familiare nascosta dietro la finestra. Il canto si trasforma in un ruggito finchè Bruce non si rassegna a sporgersi per salutare. Dalla finestra, a pochi metri da terra sorride ai suoi fans. La visuale che ho dall’interno della stanza non è la migliore. Posso vederlo prendere la chitarra, l’armonica e, incredibilmente, decidere di cantare Thunder Road per la folla sotto di lui. Questa fantastica immagine lavedo al contrario, mentre tutti per strada cantano e ballano. Posso solo immaginare cosa prova chi si trova giù. So che non cambierei quell’ esperienza di chi era in piazza con l’ ultimo ricordo che ho io di quella fantastica notte. Non dimenticherò mai l’ espressione sul volto di Bruce Springsteen – una delle più grandi rockstar di sempre – dopo quella “serenata”. Mentre rientrava in stanza dalla finestra era raggiante e non dimenticherò mai quando si disse felice mentre saliva sul minivan che l’avrebbe condotto all’ aeroporto. I suoi occhi non potevano mentire. Il suo viso – quando c’ erano solo dieci persone intorno a lui – era la personificazione della felicità. Chiunque abbia visto Bruce durante l’esecuzione di Quarter To Three immortalata nel film No Nukes, sadi cosa parlo. “I stood stone-like at midnight”, cantava un tempo Bruce in   Growin’ Up. Mi rivedo in quelle parole. Ero impietrito, ed era circa mezzanotte, mentre sapevo che in un batter d’ occhio lui sarebbe sparito dalla nostra vista. Mi stavo godendo quel momento. Poi Bruce si voltò di nuovo verso il nostro piccolo gruppo di persone e amici dentro la hall, in cerca di qualche tipo di reazione. Augurargli di rivederci presto era facile. Dovetti pensare qualche secondo per formulare un altro commiato.     “Spero che il prossimo tour – che tu sia da solo o con la band – ti renda felice e libero come ha fatto questo”. Non seppi dire altro. Avevo finito le parole. “Sono felice, ragazzi” ci disse mentre io e pochi altri ci avvicinammo per salutare. “Sono assolutamente felice. Posso solo dire che questa cosa mi ha fatto felice. Addio, statemi bene”. L’ultima parola fu sua. Non ne dubitavo.

Rassegna stampa                                                                                     

La Repubblica 23 maggio 1997

La Repubblica 24 maggio 1997 

Il Mattino 23 maggio 1997 (1) 

Il Mattino 23 maggio 1997 (2)

Il Mattino 23 maggio 1997 (3)

Il Mattino 23 maggio 1997 (4)                                                                                     

SETLIST

01 The Ghost Of Tom Joad
02. Atlantic City
03. Straight Time
04. Highway 29
05. Darkness On The Edge Of town
06. Johnny 99
07. Highway Patrolman
08. It’s Hard To Be A Saint In The City
09. Red Headed Woman
10. Two Hearts
11. The River
12. Born In The USA
13. Dry Lightning
14. Reason To Believe
15. Sinaloa Cowboys
16. The Line
17. Balboa Park
18. Across The Border
19. O sole mio
20. Growin’ Up
21. Working On The Highway
22. This Hard Land
23. No Surrender
24. Galveston Bay
25. The Promised Land

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