Come è noto, Mike Appel fu tra i primi a credere nel potenziale di Springsteen e colui che, grazie a una incredibile determinazione, lo aiutò ad ottenere il suo primo contratto con la Columbia Records nel giugno del 1972. Fecero poi seguito altre firme ed altri contratti che sancivano il ruolo di Appel come manager di Bruce. Quei contratti, tuttavia, si rivelarono poco vantaggiosi per Bruce e molto per Appel e la società di produzione Laurel Canyon di cui quest’ultimo era partner. In sostanza: la Canyon diventava l’unico proprietario del catalogo di Springsteen e i guadagni del Boss dovevano essere divisi con Appel. Nonostante la straordinaria accoglienza ricevuta da “Born To Run” e dal tour che ne aveva fatto seguito, il rapporto tra i due era ormai ai ferri corti, tant’è che nel giugno del 1976 Bruce – che aveva già alle spalle due album prodotti da Appel (“Greetings from Asbury Park, N.J.” e “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”) – decise di svoltare rompendo il rapporto con Appel e individuando Jon Landau, con il quale aveva allacciato nel frattempo un rapporto sempre più convincente di stima e amicizia, quale suo successivo manager. Mike Appel scrisse a Springsteen che non avrebbe permesso a Jon Landau di produrre il successivo album, citando un particolare paragrafo dal loro contratto originale. Bruce rispose il 27 luglio 1976 licenziando ufficialmente Mike Appel e citando in giudizio lui e la sua società di gestione Laurel Canyon Ltd. nella Corte Federale di Manhattan, rivendicando frodi, violazioni della fiducia e un’indebita influenza. Appel reagì il 29 luglio nella Corte Suprema dello Stato di New York, chiedendo alla corte di vietare a Springsteen e Jon Landau di lavorare insieme in studio. In realtà, Bruce e The E Street Band avevano in programma di registrare quell’anno un nuovo album, ma il 15 settembre 1976 il giudice con decreto ingiuntivo proibì a Springsteen ulteriori registrazioni con la Columbia Records fino a che la causa con Appel non fosse risolta. La battaglia legale si chiuse nel maggio del 1977: il contratto venne rescisso e Springsteen poté cominciare a lavorare con il suo nuovo produttore e manager, Jon Landau (che ancora oggi è il braccio destro del Boss), all’ideale sequel di “Born to Run”, quello che sarebbe poi diventato “Darkness On The Edge Of Town”.
The Promise rappresentò una svolta nella carriera di Bruce e un nuovo tipo di maturità nella sua prospettiva lirica. Quando sentì la canzone per la prima volta, in un concerto a South Bend, Indiana, il critico del Chicago Reader, John Milward, scrisse: «La metafora della canzone è “The Challenger”, una macchina da corsa che il cantante ha costruito con le proprie mani “per portare i sogni infranti di tutti coloro che hanno perso”. Ma la vera svolta avviene durante il passaggio della canzone in cui canta le parole “thunder road” e trasforma immediatamente la macchina nei suoi sogni rock and roll. In The Promise, Springsteen mitizza se stesso e paragona la sua lotta per essere fedele alla sua arte alla lotta disperata del giovane che corre in auto. Canta in Thunder Road che “stanotte è la notte in cui ogni promessa sarà infranta”, ma il sogno impresso in The Promise, messo nella prospettiva della esperienza propria di Springsteen, è chiaramente una nozione romantica che non sarà distrutta facilmente. Nonostante il paesaggio pieno di perdenti – il cantante vende effettivamente la sua macchina quando ha bisogno di soldi – è chiaro che nel cuore di Springsteen il potenziale del “Challenger” non morirà mai. »
Quando Milward si riferisce alla “esperienza propria di Springsteen” – come Dave Marsh scrive in ”Born To Run: The Bruce Springsteen Story” – allude chiaramente all’azione legale, ma Milward è abbastanza astuto per sapere che l’azione legale in sé è solo un simbolo di quello che Bruce ha subìto da quando Born to Run l’ha reso famoso («Io non scrivo canzoni su cose legali», dice Bruce in modo lucido e succinto, e il fatto che la gente potesse pensare che The Promise avesse a che fare anche un po’ con la causa, l’ha fatta estromettere dal suo quarto album). The Promise parla piuttosto del prezzo che tutti pagano per il successo e del pericolo di accontentarsi di qualcosa di meno.
La più strana anomalia del successo è che richiede compromessi mai richiesti neanche per il fallimento. Non è solo per le piccole violenze contro il proprio modo di essere – come ad esempio fare autografi durante i pasti, che riduce l’atto stesso del mangiare a un semplice evento promozionale. È anche per l’attesa, e la possibilità, che uno possa fare qualsiasi cosa per non perdere ciò che ha ottenuto. E questo, naturalmente, è antitetico al sogno del rock and roll, il quale dice che l’unico modo di possedere qualsiasi cosa di veramente importante è rischiare di perderla tutta. «Ce l’abbiamo fatta… e abbiamo gettato via tutto», dice Springsteen alla fine di The Promise, che espone un’elegante punto di vista sulla versione rock del successo.