Il cosiddetto “Wall of Sound” di Phil Spector resta una delle influenze più marcate del primo Springsteen, l’idea principale su cui basare BORN TO RUN e una serie di divertissements laterali come la produzione di Ronnie Spector a opera di Steve Van Zandt (con Bruce coinvolto e felice di esserci). Nel corso dei seriosi e “sinfonici” anni ’70, Bruce seppe comporre brani alla Spector (alcuni rimasti ad invecchiare come Linda Let Me Be The One, comparso su Tracks solo nel 1998) e riscoprire quel grande patrimonio di “canzoni da tre minuti” destinate all’usa e getta di un paio di generazioni. Poi valorizzò i grandi gruppi femminili, sconosciuti cantanti di beat, 45 giri finiti nel dimenticatoio. Tutto passato al filtro di una musica, quella della E Street Band, moderna e potente, capace di passare dal soul fiatistico al più scoppiettante dei R&R. Ermanno Labianca (American Skin)
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.19, dicembre 1999.
Il 26 dicembre (megalomane com’è, probabile che si sia spesso rammaricato di non essere nato lo stesso giorno di Gesù Cristo) Phil Spector compie cinquantanove anni. Ne sono trascorsi quaranta da quando diede alle stampe il suo unico LP da musicista, trenta da quando si ripresentò alla ribalta dopo uno sdegnato aventino triennale, venticinque da quando mise mano alla sua ultima grande produzione (“Rock’n’Roll” di John Lennon), dieci da quando rimasterizzò in digitale la sua leggendaria antologia di carole e venne introdotto nella “Rock’n’Roll Hall Of Fame”. Brutta faccenda. Quando ti celebrano da quelle parti vuol dire che sei morto anche se sei vivo. Il decennio che va a spegnersi ci ha regalato, proprio all’inizio, il monumentale riordino del suo lavoro (meglio forse sarebbe dire: il riordino del suo lavoro monumentale) che va sotto il nome di “Back To Mono (1958-1969)” (box quadruplo del quale nessuna casa dovrebbe esser priva), senza però offrirci neppure una canzone nuova con la sua firma. Sono un po’ di anni, vedete, che il nostro uomo è – come dire? – alquanto out there.
L’aneddotica su Phil Spector, non solo il Mozart e il Wagner della musica pop ma anche il suo Howard Hughes, è vastissima. Si racconta di una sua fobia per i viaggi in aereo che una volta gli fece bloccare otto decolli perché sicuro che il volo su cui era salito non sarebbe arrivato a destinazione (poteva permetterselo, aveva appena guadagnato il suo secondo milione di dollari). Si racconta che – un po’ per gelosia, un po’ per timore che venisse seguita da qualche maniaco – costringeva la moglie Ronnie, quando usciva in auto da sola, a sistemare sul sedile del passeggero un manichino riproducente le fattezze del consorte. Si racconta che, quando i due scoprirono che non potevano avere figli e decisero di adottare una bambina, la obbligò a sistemare sotto i vestiti cuscini di dimensioni crescenti via via che passavano i mesi per simulare una gravidanza. Si racconta che giri sempre armato con una pistola di grosso calibro e che non esiti a estrarla. In sala con lui, un giorno Leonard Cohen ebbe a eccepire sugli arrangiamenti orchestrali che gli stava imponendo. Spector tirò fuori il revolver e glielo puntò alla testa. Cohen disse che gli arrangiamenti gli piacevano molto. “Death Of A Ladies Man” è il suo album peggiore, ma gli è sopravvissuto e ha potuto farne altri.
Si racconta però anche di un perfezionista capace di passare tredici ore, durante le sedute di registrazione di “End Of The Century” dei Ramones, a rifinire un unico accordo. Tredici ore su un accordo! Suonato dai Ramones! Se non è stato naturalmente solo il duro lavoro a fare di lui il gigante che è – c’entra più che altro quell’ineffabile quid che chiamiamo Genio – è certo che Phil Spector si è guadagnato ogni singolo centesimo poi speso, una volta spentisi i riflettori, in alcool e psicanalisti.
(Scena: uno studio televisivo americano, 1962. Si chiama “The Open End”, lo presentano David Susskind e Williams B. Williams ed è uno dei programmi più popolari del momento. Questa sera è ospite uno degli uomini più popolari del momento. È poco più che un ragazzino, si chiama Philip Harvey Spector, fa il produttore discografico e ogni 45 giri che reca il suo marchio entra puntualmente nei Top 10. Susskind lamenta che questo rock’n’roll di cui tanto si parla è sciatto, che non ci sono più le belle canzoni di una volta, tipo quelle di Cole Porter. L’invitato replica che non ci sono nemmeno più i presidenti di una volta, tipo Abraham Lincoln. Susskind comincia a recitare il testo di uno dei successi di Spector, con il palese intento di ridicolizzarlo. Spector tiene il tempo battendo su un tavolino e dice: “Quello che ti manca è il ritmo”. Dopo qualche minuto si scoccia e si rivolge a Williams chiedendogli, visto che sostengono di amare la buona musica, come mai nel loro programma non fanno mai ascoltare Verdi ma solo canzonette. Williams, imbarazzato, non risponde. Si gira verso Susskind: “Non sono venuto qui per sentirmi dire che sto corrompendo la gioventù d’America. A quest’ora potevo essere a casa a lavorare e a far soldi”. Cala il gelo sullo studio.)
Fra le tante leggende che circolano su Spector ce ne sono due davvero prive di qualsiasi fondamento: che il suono dei suoi dischi – il cosiddetto Wall Of Sound spectoriano – sia monolitico e che i testi delle sue canzoni siano banali. Entrambe si sgretolano miseramente a un ascolto appena più approfondito. Lascia stupefatti la ricchezza degli arrangiamenti, finissima trama di voci, archi e ottoni poggiata sulle fondamenta di ritmi di eleganza e funzionalità somme. E quanto ai testi sono capolavori di poesia adolescenziale di un’intensità e un lirismo quali il pop non aveva mai conosciuto né mai più, a questi livelli, conoscerà. In tutto figli del loro tempo, come Shakespeare, ma allo stesso modo capaci di trascenderlo. Perché da che mondo è mondo i primi palpiti d’amore, dolcissimi e dolorosi, si somigliano. Storie lineari e raccolte che con un’economia di parole esemplare svelano grande attenzione al dettaglio psicologico.
A mettere in un dato ordine certune fra queste canzoni si possono costruire miniature di romanzi. In I Wonder, delle Ronettes, una ragazza si interroga su come sarà l’uomo della sua vita. In Then He Kissed Me, delle Crystals, scopre di averlo trovato e si fa baciare “come nessuno mi aveva baciato mai”. E dopo un verso di impagabile allusività – “sapevo che era mio, così gli diedi tutto l’amore che avevo” – eccola presentarsi ai genitori di lui. Segue proposta di matrimonio: “Ero così felice che quasi piansi/e poi mi baciò”. Perché l’Estate dell’Amore è ancora lontana e si può magari consumare, ma dopo bisogna mettersi in regola. Sempre che sia possibile farlo. “Non siamo troppo giovani per sposarci”, protestano disperati Bob B. Sox & The Blue Jeans in Not Too Young To Get Married. Sempre che gli amanti riescano “a finire quello che hanno iniziato” e non si spezzino il cuore a vicenda, come in Why Do Lovers Break Each Others’ Hearts, interpretata ancora dalla banda di Bob B. Sox. Sempre che, lui lontano, lei resista ai corteggiatori che incalzano, come la Darlene Love di Wait ’Til My Bobby Gets Home. Saranno guai se non ce la fa. In un mondo che sembra il ritratto dell’innocenza (e per molti versi lo è) appare perfettamente normale che l’uomo che è stato tradito schiaffeggi la donna e poi la stupri e che lei percepisca il tutto come una dimostrazione d’amore. Che è né più né meno quanto viene raccontato, e non fra le righe, nella disturbante He Hit Me (It Felt Like A Kiss). Colossale successo per le Crystals nell’anno 1962. E qualcuno oggi si scandalizza per Marilyn Manson…
Si dice che gli anni ’60, e non solo in musica, siano cominciati nel 1964, con il dilagare della beatlemania negli Stati Uniti. È senz’altro vero. Si dice pure che il quadriennio che va dal ’60 – morti Buddy Holly e Eddie Cochran, ormai normalizzato Elvis, fuori gioco Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Gene Vincent – al ’64 sia stato il più buio della storia del rock’n’roll. È vero soltanto se si ignora che fu l’Età dell’Oro di Phil Spector. Al quale comunque la parola “rock’n’roll” non è mai piaciuta. Preferisce definire il suo stile “pop-blues”.
Originario del Bronx, cresciuto orfano di padre e trasferitosi tredicenne con madre e sorella a Hollywood, Philip Harvey Spector si innamora presto della musica. Se con piano e chitarra se la cava (fra i suoi compagni in una trafila di complessini quell’altro bell’eccentrico di Kim Fowley), il suo forte sono presto il lavoro in sala d’incisione (fa pratica con Lee Hazlewood; in quest’articolo se non sono matti non li vogliamo) e la composizione. La prima canzone che pubblica fa subito il botto. Asciutto doo wop per i cui controcanti si è fatto dare una mano da due compagni di scuola, facendo per il resto tutto da solo tranne le parti di batteria, To Know Him Is To Love Him (titolo ispirato dall’epitaffio sulla tomba del padre) scala nel 1958 le classifiche statunitensi fino alla vetta. L’anno dopo i fantomatici Teddy Bears pubblicano un 33 giri per la Imperial, “Sing!”, che resterà unico per il Nostro, che da qui in avanti preferirà lavorare dietro le quinte. L’esperienza con i Teddy Bears lo scaltrirà parecchio per quanto attiene gli aspetti economici del fare musica: defraudato di larga parte dei diritti d’autore, dopo essersi guadagnato da vivere per qualche tempo facendo il cronista giudiziario, si ritroverà a New York senza un soldo e con la prospettiva di fare l’interprete dal francese all’ONU. Per fortuna, non entrerà mai nel palazzo delle Nazioni Unite. D’ora in avanti sarà un amministratore molto oculato di sé stesso. Discografico (fonda la Philles) e scopritore di talenti oltre che autore di canzoni e arrangiatore, con presto una schiera di altri compositori, cantanti e musicisti alle sue dipendenze.
Dal 1960 al 1965 successo va dietro a successo. Ogni canzone simile alla precedente, eppure diversa, tant’è che mettendole in fila la raffinatezza (che non necessariamente vuol dire complessità) sempre maggiore dell’impianto strumentale e il lento traghettamento (percorso tuttavia niente affatto lineare) dal doo wop a un pop maturo al soul appaiono evidenti. Ogni canzone inconfondibilmente “di Phil Spector” pure quando non l’ha scritta lui, tant’è che diventa irrilevante che a cantare siano le Ronettes anziché le Crystals, Veronica piuttosto che Darlene Love. Caso unico nella storia della canzone pop di produttore che conta più degli artisti che produce. Non che non sappia distinguere, con quelli che mostrano caratteristiche peculiari, le differenti sensibilità: quando produce e/o scrive per Gene Pitney, ad esempio, usa accenti diversi da quando lavora con i Righteous Brothers. È di una logica assoluta che affidi al primo il melò Every Breath I Take e ai secondi l’assai più sobria crepuscolarità di Unchained Melody. Epitome suprema quest’ultima (benché non l’abbia scritta lui) dello Spector più riflessivo, ove i suoi vertici in fatto di esuberanza adolescenziale sono Da Doo Ron Ron e Be My Baby, date rispettivamente alle Crystals e alle Ronettes.
Per un lustro quello della fabbrica di hit di Phil Spector è il suono per eccellenza dell’America giovane. Ancora ingenua: il protagonista di He’s A Rebel, gemma donata da Pitney alle Crystals, è tanto poco teppista da fare tenerezza. Ma già pronta a sfrenarsi in liberatori amplessi: This Could Be The Night, questa potrebbe essere la notte, canta il Modern Folk Quartet facendo bye bye alla verginità. Dai desideri via via più torbidi: il testo di Strange Love potrebbe appartenere ai Velvet Underground più decadenti. E con una tragedia chiamata Vietnam che si va facendo ineludibile: Soldier Baby Of Mine è la canzone più triste che abbiano mai cantato le Ronettes.
E poi tutto finisce. Spector vede ancora lontani all’orizzonte i trent’anni, ma i coetanei che lo stanno sostituendo ai vertici delle classifiche vengono percepiti come di un’altra generazione. Quando il pubblico boccia una serie di produzioni, fra le sue più ambiziose e riuscite, per Ike & Tina Turner (River Deep Mountain High si ferma al numero 88) il nostro uomo decide che chi non lo ama non lo merita e si rifugia nella lussuosa fortezza di El Dorado, incombente sul losangeleno Sunset Strip. Vive da recluso per tre anni, frequentando soltanto l’amico Lenny Bruce e uno psicanalista. Quando torna, è un altro mondo quello che trova. Dopo avere prodotto ancora qualche manufatto di insoddisfacente qualità, la fabbrica chiude definitivamente.
Il marchio, tanto inconfondibile da rendere una raccolta di brani natalizi (l’imperdibile “A Christmas Gift For You”, datata 1963) quintessenzialmente spectoriana, è ancora spendibile, ma verrà malamente dilapidato. Paul McCartney non perdonerà mai a Spector le sovrastrutture imposte a “Let It Be” e ben di peggio il Nostro combinerà, parecchi anni dopo, con Leonard Cohen e Ramones. Solamente con John Lennon, che aveva al contrario apprezzato “Let It Be”, Spector lavorerà al meglio, nel già citato “Rock’n’Roll” e in altri due album, e anche nei classicissimi 45 giri Instant Karma e Imagine.
E il resto sono pettegolezzi, storie apocrife e una drammatica intervista-confessione al “Los Angeles Times”, nel 1992, che sembrava preludere a un ritorno che non c’è stato.
Rimangono alcune decine (alcune decine) di canzoni straordinarie e un’influenza che si è fatta sentire su artisti distantissimi fra loro: non vi siete mai accorti che Bruce Springsteen, i Ramones e Marc Almond hanno qualcosa in comune?