CITTÀ DI MORTI ED EFFIMERI GIORNI DI GLORIA

CITTÀ DI MORTI ED EFFIMERI GIORNI DI GLORIA
di Alberto Calandriello

Compie oggi 40 anni Born in the USA, il “mostro” che scaraventò Bruce Springsteen in cima a tutte le classifiche, rendendolo icona globale, lui che fino ad allora si era ritagliato uno spazio decisamente importante all’interno del rock ed all’improvviso a fianco di Madonna e Michael Jackson. Se 40 anni dopo Springsteen riesce ancora a riempire stadi e arene, qualcosa, magari non tutto, lo deve di certo a questo album, punto di svolta della sua carriera e croce e delizia sua e dei fans, specialmente quelli della prima ora. È interessante vedere come un artista rischi di perdere parte dei suoi fans nel momento in cui la sua popolarità salga ad un livello superiore; io la chiamo proprio “sindrome da Born in the USA”, ha colpito molti musicisti, i primi che mi vengono in mente sono i REM post Out of Time e dice a mio avviso molto sull’essere fans più che sulla qualità dei dischi in questione. Born in the USA contiene due brani fondamentali per la sua carriera, nel bene e nel male. La title track e Dancing in the dark. Dancing in the dark uscì come primo singolo e spiazzò molti degli hardcore fans di cui sopra, con il suo ritmo dance, i synth così tanto anni 80 e questa patina di brillantina e dentifricio sbiancante che trasudava da ogni secondo di quel video. La title track invece rispondeva con un fisico palestrato, una bandana in testa ed un urlo feroce per stabilire i natali del suo autore. Entrambe hanno in comune una grande distanza tra parole e musica; non sono le sole, nemmeno quelle dove questa distanza è più evidente, ma è anche lì che si nasconde il cuore del “mostro”, inteso come successo e fraintendimento. Dancing in the dark ha un suono danzereccio ed un testo ai limiti della depressione:

Amico, sono solo stanco e stufo di me stesso
Amico, non andrò da nessuna parte
Finchè vivo in una topaia come questa
C’è qualcosa che accade da qualche parte
Piccola, sono sicuro che c’è
 

Sono solo alcuni esempi che ci raccontano di un uomo stanco e deluso, che si rende conto di non avere prospettive. È una tematica, quella della fuga e spesso dell’impossibilità di fuggire, che Bruce aveva già sublimato in Born to Run (“è una città di perdenti e io me ne sto andando per vincere” dice in Thunder Road, prima del finale tragico di Jungleland) in Darkness on the edge of town (“voglio sputare in faccia a questi bassifondi”, canta ad inizio album, per poi accostare la ricerca della terra promessa ai disperati che “iniziano a morire poco alla volta, pezzo dopo pezzo”) in The River e nella scoperta di un mondo adulto e fondamentalmente cattivo, un mondo dove i sogni che non si avverano diventano incubi. Una tematica di cui è completamente imbevuto Nebraska, fratello di Born in the USA, da cui Born in the USA è del tutto dipendente per atmosfere e visioni, a partire dalla prima versione della stessa title track. È Born in the USA il brano su cui vale la pena soffermarsi. Un grido straziante interpretato come urlo di gioia ed orgoglio, una critica feroce presa per patriottismo, una nazione che gira le spalle ai suoi figli confusa per una materna e accogliente casa dei coraggiosi.

La figura del veterano colpisce probabilmente l’immaginario di Bruce da ragazzo, quando viene scartato dall’esercito e si rende poi conto nel tempo di quello che gli sarebbe potuto succedere. Se ascoltiamo l’intro di The River nel Live 75/85, quando arriva al punto in cui viene scartato, la gente applaude come se tirasse un respiro di sollievo “a posteriori”, ma Bruce, che ha perso alcuni amici in Vietnam (ne parla in The Wall e in Last Man Standing, tra le altre) ferma subito gli applausi, quasi imbarazzato dalla fortuna avuta nel potersi evitare quella carneficina.

Dall’incontro con Ron Kovic (reduce del Vietnam ed autore del libro Nato il 4 Luglio), Bruce non dimentica più i veterani, le vittime di guerra e gli amici perduti. Per restare ai giorni nostri, non è un caso se l’unico personaggio davvero felice di Western Stars sia Sleepy Joe, il reduce della Seconda Guerra Mondiale che grazie ad un prestito dello Stato ha aperto un bar dove andare a ballare e a bersene un paio; quanta differenza con il protagonista di Born in the USA, “colpevole” di aver partecipato alla guerra sbagliata, a cui l’uomo dell’associazione veterani dice “non puoi capire”.

La stessa Lost in the Flood (da Greetings from Asbury Park, NJ), brano cardine di tutta la discografia springsteeniana, inizia con l’immagine del soldato malconcio che torna  a casa come un fuggitivo affamato, mentre tutto intorno il delirio avvolge la realtà come un diluvio.

Anni dopo poi, tra le sabbie dei deserti in medio oriente, Bruce canterà di chi riconosce che la paura sia un’arma molto potente e a migliaia di km da casa si vede circondato e perseguitato da diavoli e polvere.

Tutti brani, ce ne sarebbero altri, dove il messaggio è forte e chiaro, mentre in Born in the USA viene ancora oggi travisato. Il ritmo marziale, imponente, decisamente enfatico contribuisce certo, ma il testo non fa altro che ricalcare le tematiche che già da anni Bruce cantava. Il suono risente molto del periodo, i synth più del pianoforte, la batteria, insomma il rock anni 80, quello più mainstream, che in certi casi oggi mostra il fianco e non è invecchiato meravigliosamente.

40 anni dopo, preferisco lasciare da parte le considerazioni sui sintetizzatori ed i balletti e guardare come la sua musica abbia comunque proseguito su un filone riconoscibile e coerente. A livello di testi ed atmosfere, nel 1984 Bruce dipinge l’America come solo lui sa fare, da sempre, come farà anni dopo con The Rising e mantenendo sempre teso il filo che unisce i personaggi delle sue canzoni.

Nato da una costola di Nebraska, questo disco porta con sé alcuni brani che dovevano uscire prima e che ricordano da vicino certi personaggi: in Downbound Train e in Working on the Highway, seppur mascherati nel secondo da un trascinante rockabilly, vivono persone del tutto simili a Johnny 99 o al tizio che fa un piccolo favore ai ragazzi di Atlantic City, persone con la stessa frustrazione, con le stesse difficoltà. E come in Nebraska, non è il giudizio il punto focale, ma le riflessioni che certe storie stimolano. Quel “Nowhere to run, nowhere to go” sta alla base delle motivazioni per cui quella maledetta sera Johnny 99 è tornato a casa ubriaco. Bruce non giustifica né impietosisce, “non sto dicendo che questo faccia di me una persona innocente, ma è ciò che più di ogni altra cosa mi ha messo in mano quel fucile”.  È una frase cardinale nella sua discografia, è un atteggiamento, un approccio ai personaggi di cui canta che non ha mai abbandonato.

Glory days racconta l’ennesima storia triste su note allegre e festaiole, forse solo la già citata Johnny 99 nelle più recenti versioni live ha subito di più questo trattamento: “beautiful melodies telling me terrible things”, Tom Waits ne sarà orgoglioso. Atleti in declino, reginette della scuola abbandonate, semplici persone che aspettano la fine del turno per affogare in un bicchiere le amarezze quotidiane. Alcuni di loro escono direttamente da Night e magari troveranno l’anima gemella, altri meno fortunati arrivano da Something in the Night e alzeranno il volume della radio per non essere costretti a pensare, se guardiamo bene ritorna per l’ennesima volta Johnny 99 ed ehi, quell’attaccabrighe che sta per scatenare un’altra rissa è proprio Frankie Roberts. Non stempera la tensione il finale del pezzo, anzi acuisce l’amarezza di chi è già consapevole che i bei ricordi lo perseguiteranno fino a diventare “boring stories”, che è un modo più gentile di dire “is a dream a lie if it don’t come true?”.

La conclusione dell’album spinge ancora il pedale dell’amarezza, dell’abbandono, della disfatta.

L’America che a detta di tutti viene celebrata in queste canzoni, altro non è che “vetrine imbiancate e negozi vuoti”, un posto dove sembra che tutti vogliano andarsene. Non è certo l’America che in quegli anni veniva raccontata da Reagan (con cui non a caso Bruce ebbe uno scambio a distanza per via dell’ennesima interpretazione sbagliata dei suoi testi), ma un luogo svuotato che ti spinge a fuggire. La città di morti dove nasce il protagonista della title track, lo spinge a cercare fortuna più a sud, quel sud che in un brano dello stesso periodo ma mai pubblicato (Seeds) accoglierà decine di disperati, preparando forse il terreno per il fantasma di Tom Joad. Si, è una città di morti e perdenti, ma non sempre si riesce a scappare, né tanto meno a vincere. Gli effimeri giorni di gloria svaniscono e lasciano il posto a riflessioni agrodolci sul futuro.

Non a caso, 3 anni dopo, si parlerà di amore, fallimenti, relazioni personali e tradimento

Alberto “il Cala” Calandriello, assistente sociale e appassionato di musica, 52 anni, scrive per passione e ogni tanto per necessità! Fan di Springsteen dal 1986 ha pubblicato 3 libri, di cui l’ultimo “Abbassa quello Stereo” (Gli Elefanti Edizioni, 2018) è disponibile su Amazon e al Pit a Napoli.

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