Il puzzle del nuovo album è quasi completo. Tessera dopo tessera, commento dopo commento, sta per comporsi l’immagine definitiva di questo nuovo lavoro di Bruce Springsteen che vedrà finalmente la luce il 14 giugno. Dalle tante recensioni emerge una critica pressoché concorde a celebrare un altro capolavoro, a dispetto dei primi commenti a caldo, fondati sull’ascolto dei due brani rilasciati in anteprima che avevano lasciato piuttosto freddini molti fans e critici musicali. Ma si sa: come un romanzo va letto dalla prima all’ultima pagina o un film guardato dal primo all’ultimo fotogramma, evidentemente è nella sua interezza che il nuovo racconto di Bruce si è rilevato quel “gioiello” di cui parlava soddisfatto lo stesso autore.
Mettendo insieme i frammenti emersi dal web e dalle maggiori testate che hanno recensito l’album, possiamo dedurre qualche dettaglio in più che forse ci aiuterà nell’ascolto e nella comprensione dell’attesissimo Western Stars.
L’album si compone di tante storie ambientate nell’ovest americano, in autostrade e spazi deserti, tra solitudine necessaria o sofferta, tra comunità ai margini, tra persistenza delle radici e speranza. La narrazione avviene attraverso una straordinaria abilità narrativa, in cui i contesti urbani assumono colori e dettagli quasi impressionistici. Dall’abbandono politico cantato in “We Take Care of Our Own” dall’album Wrecking Ball, Bruce passa a cantare della solitudine esistenziale e dell’amore, disincantato e prosciugato da qualsiasi retorica, come strumento imprescindibile per cancellare fallimenti e insoddisfazioni. Il sound trae ispirazione, come è stato detto più volte, in parte dal pop della South California degli ultimi anni ’60 e primi anni ’70. Ma aspettiamoci sperimentazioni musicali e vocali che deviano dalle sonorità del rock classico springsteeniano, da quelle acustiche dei lavori solisti (o comunque senza E Street Band) o da quelle folk “Seeger Sessions”. Western Stars è ricco di orchestrazioni, ma anche finemente acustico e country, sonorità funzionali a una narrazione impeccabile di queste sceneggiature e delle loro suggestioni cinematografiche.
Il racconto è sempre in prima persona: sebbene ovviamente i personaggi cambino e cambino i contesti, -come in un film corale di Altman o ne “L’ultimo spettacolo” di Bogdanovich, o ancora in “Crossing Over” di Kramer – tutti i protagonisti ruotano intorno alle stesse tematiche: la ricerca di un’identità, l’allontanamento e il ritorno, il potere devastante ma a volte salvifico dell’amore, la solitudine declinata in tutte le sue drammatiche sfaccettature, le cadute nel vuoto e i tentativi di redenzione. Microstorie che compongono un affresco dalle tinte polverose, un po’ cupe, un po’ lievi, malinconiche ed essenziali pur nella ricchezza di dettagli e di sonorità. Da quella dell’autostoppista di «Hitch Hikin’» che segue senza mappe solo il tempo e il vento, portando con sé “quel poco che riesce a trasportare e la sua canzone”, che Bruce racconta con una ballata lenta e nostalgica con chitarra acustica e banjo, cui si aggiunge l’orchestra nella terza strofa per dar forza alla storia; o quella del viaggiatore di «The Wayfarer», che invoca risposte al suo “Where are you now?” in atmosfera notturna e intima tra riff di chitarra ed archi; dalla redenzione del protagonista di «Tucson Train» che, lontano dalla propria città, cerca di svoltare e cambiare vita per poter riconquistare l’amore della sua donna, cantato con una ritmica asciutta che evoca la polvere e il sudore delle sue umili giornate lavorative; alle nostalgie dell’attore caduto in disgrazia di «Western Stars» che confida nella notte in cui “le stelle dell’ovest torneranno a brillare”, tra ricordi di una gioventù gloriosa “ai tempi di John Wayne”, rimpianti e qualche effimera speranza.
Alla storia di Joe & May fa da sfondo lo «Sleepy Joe’s Café», un ritrovo di periferia per operai, camionisti e motociclisti che staccano il fine settimana per trovare un po’ di leggerezza e felicità tra una birra e l’altra. Sebbene velatamente malinconica, è uno dei brani più allegri dell’album grazie agli intrecci di organo, archi e fiati.
Con la ballata romantica di «Drive Fast (The Stuntman)», compare sul set dell’album una controfigura di b movie – con alle spalle una gioventù bruciata tra droga, velocità e ossa rotte – che cerca di rimettere in sesto la sua vita attraverso l’amore.
Poi è la volta del ranger solitario di «Chasin’ Wild», che ha scelto di lasciare tutto per dimenticare una donna il cui nome urlato disperatamente al vento gli ritorna indietro con l’eco nei canyon. Ancora soli sono il protagonista di «Sundown» che sceglie di portare con sé il ricordo dell’amata, e il cantautore di «Somewhere North of Nashville» che resta sdraiato nella notte a elencare gli errori commessi con il nome dell’amata in cima alla lista: prima aveva l’amore ma adesso solo canzoni da cantare.
«Stones», «There Goes My Miracle» e «Hello Sunshine» narrano l’amarezza delle bugie, dei dubbi e del peso che lasciano dentro, della voglia di partire ma anche di ritornare. L’album/film si conclude al «Moonlight Motel», un vero e proprio set cinematografico per storie descritte con lucidi dettagli e una bottiglia di whisky in cui annegare memorie amare, con un’unica consapevolezza: nonostante tutto, “it’s better to have loved”.
realmente affascinante , come sempre