Recensione di Dario Migliorini
Se dovessi trovare un sottotitolo a Letter To You, il nuovo album di Bruce Springsteen, lo chiamerei Rock Exorcism, Esorcismo Rock. Già, perché una cosa è da mettere subito in chiaro: questo album parla di morte. Mi correggo, parla con la morte. Springsteen apre un dialogo diretto con l’oscura signora delle tenebre e – proprio così – la esorcizza con il rock. Non un rock qualsiasi, intendiamoci. Non strizzando l’occhiolino al pop-rock più sintetizzato, come più di una volta gli è successo dagli anni Ottanta in poi, ma con quel sound viscerale che ha contraddistinto lui e la leggendaria E-Street Band nei suoi primissimi lavori (fino a The River).
Un’Operazione Nostalgia, dicono i detrattori. Nient’affatto. Una scelta precisa e logica. Bruce affronta la morte: è consapevole della sua incombente presenza (il big black train che arriva nel primissimo verso dell’album, nell’oscura One Minute You’re Here); le riconosce potere, quello che gli ha portato via alcuni tra i suoi migliori amici; poi, però, in Ghosts le urla sprezzante I’m alive, sono vivo, e lo fa mostrandole che lui e i suoi amici sanno ancora fare rock, proprio come mezzo secolo fa, in barba all’età e agli acciacchi. Questo è il senso logico di Letter To You.
Ma sarebbe un errore pensarlo come un elemento a sé. A ben vedere Springsteen ha parlato di morte lungo tutta la sua carriera. Non solo quando la esplicitava (come non ricordare gli splendidi episodi di Point Blank, degli album Nebraska e The Ghost Of Tom Joad, fino alla più recente We Are Alive), ma anche nelle storie in cui i personaggi, i suoi magnifici perdenti, non riuscivano ad alimentare speranza e si arrendevano. Non hanno forse il fetore della morte Something In The Night e Stolen Car? Non muoiono, pezzo dopo pezzo, i ragazzi che rinunciano a vivere in Racing In The Street?
Ma allora la morte fisica (e quella dell’anima) non lo riguardavano direttamente, non lo avevano ancora toccato così da vicino. Oggi invece è in corso un processo molto più introspettivo, che lo coinvolge direttamente e in modo ossessivo: l’elaborazione della morte. O, meglio, della sua morte. Un processo evidentemente legato alla forma di depressione che lo attanaglia da tempo. La depressione porta a pensieri terribili: ci si sente inadeguati e indegni, si è invasi da sensi di colpa e si arriva a pensare che non valga la pena di vivere. Il suicidio nei casi più estremi. In ogni caso la morte interiore. Da quando vive queste orrende sensazioni, Bruce ha intrapreso un percorso che Simone Paglialunga, rifacendosi a Freud, definirebbe di riparazione preventiva. Una sorta di “Cara morte, prima che tu venga a prendere anche me, abbiamo qualcosa da chiarire.”
Ma quel faccia a faccia Springsteen, nella sua infinita onestà, ha deciso di metterlo in piazza, di condividerlo con i suoi milioni di estimatori, certo che avrebbe trovato solo amore e comprensione. Lo ha fatto con la pubblicazione della sua splendida autobiografia, nella quale tutti questi elementi sono esplosi con una stupefacente flagranza. E chi ha assistito agli intimi e toccanti spettacoli live di Broadway può testimoniare come il pensiero della morte rimanesse lì, appeso e incombente. Assistendo a Springsteen On Broadway veniva da chiedersi se Bruce fosse giunto al capolinea della sua carriera. Quella ricostruzione delle fasi salienti della sua vita in un one man show poteva rappresentare i titoli di coda di un film incredibilmente bello.
E, invece, ecco che il Boss ha tirato fuori un album sorprendente, Western Stars. Il fatto che lo abbia registrato per la prima volta con un’intera orchestra alle spalle è stato uno shock, al punto che alcuni, a livello musicale, non lo hanno capito. Ma su una cosa penso tutti abbiano convenuto: Western Stars è un capolavoro lirico, poesia in musica così bella da rimanerne feriti. E, a guardarci bene, la morte è ancora lì che si nasconde. Arrivo a sostenere che Western Stars e Letter To You siano due momenti diversissimi dello stesso percorso. In Western Stars Bruce analizza la morte, la ispeziona, la circoscrive. Lo fa nel modo che gli è sempre riuscito meglio: raccontando storie. Ci sono persone al crepuscolo della vita, uomini feriti nel corpo e nell’anima, tanti ricordi e rimorsi. I vecchi amori sono finiti, persino i luoghi stanno agonizzando. Il tempo del riscatto e della redenzione è ormai ridotto al lumicino, per alcuni è già finito. E con Hello Sunshine, l’unica canzone esplicitamente autobiografica dell’album, prega la luce, cioè la vita, di rimanere ancora un po’. Indirettamente chiede alla morte di farsi ancora da parte.
Letter To You è il passo successivo. Ora Bruce non è più solo, invaghito della solitudine, in strade e città vuote. Ora è in studio insieme ai suoi amici di sempre, con i tasti di una chitarra sotto le dita e la voglia di reagire, proprio perché è arrivata un po’ di quella tanto agognata luce. Springsteen non rifugge il pensiero della morte, non la raggira, non la ignora. No, lui le parla e la affronta. E con il rock, appunto, la esorcizza. Questa è la linfa di Letter To You, ne è anche la sua straordinaria bellezza. Lo stesso Bruce ha raccontato che l’elemento scatenante di questo progetto è stato, guarda caso, la morte di un amico. Non quella dei grandi amici Danny Federici o Clarence Clemons, ma quella del più defilato George Theiss, il suo sparring partner – quasi un alter ego – nella prima band giovanile dei Castiles.
Facendogli visita nell’imminenza della sua dipartita a causa di un cancro, Bruce si è reso conto di essere l’ultimo superstite di quella prima band, il Last Man Standing di uno dei nuovi brani del disco, una bella ballata in pieno E Street sound. Il ricordo di quei momenti di tanti anni fa si trasforma in un auspicio, quasi in una preghiera: “Schiere di angeli, sollevatemi in qualche modo, in qualche posto alto, forte e rumoroso, da qualche parte nel profondo del cuore della folla, sono l’ultimo uomo rimasto.” Ecco l’esorcismo: “Sono l’ultimo rimasto, il prossimo sarò io e allora, angeli, quando verrete a prendermi, portatemi in un posto dove possa suonare ancora, fatemi sentire anche lassù il calore della gente” sembra dire Bruce, che alla morte di Theiss dedica altre due canzoni del disco.
In Ghosts, nonostante il pensiero corra inevitabile a Federici e a Clemons (ma anche a Terry McGovern, che fu il suo uomo ombra per tanti anni), in realtà è proprio Theiss il principale fantasma che Bruce rivede, imbracciando la sua vecchia Les Paul e attaccandola all’amplificatore Fender ancora oggi posizionato sul volume 10, il massimo, per buttare giù la casa dove suonavano. Una casa che Springsteen & Co provano a buttare giù ancora oggi con un brano di puro rock’n’roll.
Anche la dolcissima I’ll See You In My Dreams si rivolge direttamente a Theiss: “Ti vedrò nei miei sogni, sì, al di là del fiume, perché la morte non è la fine”. Non è un caso che I’ll See You In My Dreams sia posta alla fine dell’album. Perché è proprio in quel verso che Bruce, dopo l’intenso dialogo con la morte e la vigorosa spallata rock che le rifila, arriva alla risposta finale: la morte non è la fine. Questa è la citazione nella quale culmina tutto il percorso. Arriva solo nelle ultime righe, come se un uomo comprendesse il significato del suo viaggio solo all’ultima curva prima della meta.
Un viaggio, quello di Letter To You, che era iniziato, circa un’ora prima, con un episodio acustico, lontano dal rock energico del resto dell’album. “Cosa c’entra One Minute You’re Here con questo disco?” verrebbe da chiedersi. Semplicemente ne è il prologo. In un libro che parla della battaglia all’ultimo sangue tra rock e morte, One Minute You’re Here ci introduce la trama e ci avvisa: “Ehi, tu che ascolti, sappi che c’è un treno enorme e nero che sta arrivando, sappi che oggi ci siamo e domani chissà. Sappi che qui si parla di morte, perché un sacco di gente se n’è già andata, ma che in qualche modo dobbiamo venirne fuori.” Non è questo il messaggio? Ed è geniale che Bruce l’abbia resa in quel modo, così diverso dal resto. Se l’album fosse un film, sarebbe quel preambolo nebbioso, musicato ma non parlato, con rumori sinistri, lungo il quale scorrono i titoli di testa.
Poi parte il copione con la prima scena recitata. La title track è un messaggio universale nelle sembianze di una ruspante ballata rock. Bruce scrive a tutti: ai suoi cari, agli amici, ai fan, al mondo. “In questi settant’anni di vita e cinquant’anni di carriera vi ho scritto una lunga lettera, nella quale vi ho raccontato tempi buoni e tempi duri, momenti di felicità e di dolore. Ma ho sempre cercato la verità.” La parola true ricorre più volte nel testo ed è centrale. Springsteen è amato anche per la sua coerenza e la sua sincerità. L’insistenza su quel termine, true, è una conferma di quel valore condiviso.
Poi inizia l’esorcismo: il primo duro colpo lo dà Burnin’ Train, il pezzo più trainante a livello ritmico insieme a Ghosts. Forse il pezzo più sorprendente, anche musicalmente. Non la più classica ballata, ma un vorticoso gioco cassa-rullante-charleston condotto magistralmente da Mighty Max Weinberg, su cui le chitarre e l’hammond vanno a nozze. Il testo non sorprende di meno, non solo perché il dialogo con la morte diventa esplicito, ma soprattutto perché Bruce sembra parlare di riti che nulla hanno a che vedere con la religione cattolica (e non è nemmeno la prima volta). Riti massonici, forse. Sembra quasi che l’affronto alla morte lo voglia condurre non con il crocifisso cristiano, il simbolo religioso per eccellenza così venerato in famiglia, ma con “le preghiere nere”, i roghi e altre pratiche spaventose (“ho fatto scorrere il mio dito nella cavità del tuo stomaco mentre tu respiri stesa”). E la preghiera non è un amen, ma un “prendimi e scrollami da questa gabbia mortale.” Ecco l’esorcismo rock in tutta la sua esplicita concretizzazione.
Di preghiere si parla anche in The Power Of Prayer, come facilmente intuibile, ma Springsteen ama sorprendere. Questa bella ballata rock, con hammond, pianoforte e sax che impazzano in vero E Street style, sembra liberarci per un attimo dal tiratissimo match in corso con la morte. In realtà il tema di fondo rimane. Come può una coppia ancora innamorata e unita a settant’anni affrontare la vecchiaia e il pensiero dell’inevitabile futura separazione terrena? Risposta: ballando. Siamo su una pista da ballo, è ormai la fine della serata, ma stanno ancora mandando una canzone di Ben E. King. La musica come preghiera, non a caso la musica di un mitico cantante soul, che insieme al gospel, è la musica più vicina all’idea di Dio, di un anima che trascende il corpo.
Ci siamo ormai: la lama tagliente che deve infliggere il colpo mortale alla morte stessa (o alla paura di essa) arriva con House Of A Thousand Guitars, titolo preso in prestito da Willie Nile ma canzone essenziale in questo disco. È sabato sera, il momento clou della settimana per tutti, specie per chi fa musica. Dopo che ognuno ha fatto la conta delle sue ferite e delle sue cicatrici, tra chiese e prigioni (autocitazione di Jungleland?) e pagliacci criminali (Trump?), ci si ritrova nella casa delle mille chitarre. Anche in questo brano, come nella title track, c’è un messaggio tenero ed emozionante a tutti, ai morti e ai vivi e, tra questi, agli estimatori sparsi nel mondo: “fratello e sorella, ovunque voi siate…buone anime vicine e lontane… illumineremo la casa delle mille chitarre.” I luoghi della catarsi collettiva sono citati espressamente: “Quindi possiamo scrollarti di dosso i tuoi guai, amico mio, andremo dove la musica non finisce mai, dagli stadi ai bar delle piccole città, illumineremo la casa delle mille chitarre.” In effetti, se è indubbio che il tempo che avanza e il pensiero della morte siano gli elementi fondanti, Letter To You porta con sé anche un altro motivo forte: a causa della pandemia, Bruce non può girare il mondo in tour, per lui linfa vitale. L’aver registrato questo album in modalità live, seppur tra le quattro mura di uno studio, risponde, almeno parzialmente, a quella sua esigenza. Anche per questo House Of A Thousand Guitars è, nel significato, uno dei punti centrali di tutto l’album.
Dagli otto brani citati finora, seppur in ordine sparso, si staccano un brano inedito e tre favolosi remake. Il primo è Rainmaker. Sembrava impossibile che Springsteen, alla vigilia delle elezioni presidenziali americane, non richiamasse la situazione politica e, in particolare, la sua avversione ideologica e personale a Donald Trump. Anche se non ci sono riferimenti espliciti, l’attuale Presidente sembra comparire nelle sembianze del Mago della Pioggia, colui che illude le folle promettendo che farà scendere la pioggia dopo giorni di gravissima siccità. L’incantatore meschino a cui la gente si affida (“Mani alzate a Yahweh per far scendere la pioggia, lui arriva strisciando attraverso i campi aridi come una cappa oscura”). La leggenda narra che la canzone fu scritta anni fa contro George W. Bush Jr, ma che all’ultimo gli fu preferita Magic, molto simile per tematica. Sembra che Bruce abbia dichiarato di aver recuperato Rainmaker perché forse oggi è ancora più attuale di quando l’aveva scritta. Un momentaneo cambio di rotta, almeno apparente, in un album che parla di aspetti più personali e intimi, di musica e di condivisione. Ma evidentemente Springsteen non è riuscito a stare del tutto fuori dal tenzone politico, come ormai da un paio di decenni.
E poi… e poi ci sono le tre gemme, le canzoni che Bruce ha deciso di inserire nell’album, ripescandole dagli archivi di esattamente cinquant’anni fa. Parrebbe un malinconico amarcord, magari un piccolo grande regalo ai suoi fan. E, invece, c’è qualcosa di più. Intanto il significato logico: “Cara morte, ti faccio sentire quello che scrivevo allora e come io e i miei amici lo suoniamo ancora oggi.” Infatti Springsteen non pubblica tre registrazioni dell’epoca, ma le risuona e ricanta oggi, con un timbro dylaniano che può sembrare vintage, ma commuove. La carriera di Springsteen nacque nell’idea del nuovo Dylan, veste che lui avrebbe presto dismesso (saggiamente) per trovare una sua identità. Oggi scopriamo ancora più nitidamente perché John Hammond, ai tempi guru tra i talent scout della CBS, aveva visto nel ragazzo di Freehold il nuovo profeta folk, dieci anni dopo il menestrello di Duluth. Bruce, peraltro, oggi canta quelle canzone con un trasporto davvero impressionante, le esegue come le avrebbe cantate allora, comprimendo quel mezzo secolo in pochi minuti. Poi c’è anche un aspetto tematico: paradossalmente le tre gemme hanno in qualche modo a che vedere con la morte, nonostante siano state scritte da un ventenne o poco più.
Janey Needs A Shooter, in un’interpretazione “da vocabolario”, sembra narrare la situazione di una ragazza disturbata da alcune figure che nel senso comune si ritengono integerrime e, invece, si rivelano deboli o corrotte: un medico, un prete e un poliziotto. Ma, considerando la dimestichezza che il giovane Bruce già mostrava nell’utilizzo delle metafore, quelle tre figure sono da considerare le trasposizioni di tre tipi di ragazzi che vorrebbero avere Janey, ma che, per le loro caratteristiche, non vanno bene per lei. Il ragazzo narrante, a sua volta pretendente, le si propone come sicario, come tiratore scelto. Non tanto (o non solo) per eliminare i tre rivali, ma soprattutto per colpire il cuore della ragazza. Come un moderno Cupido, suggerisce l’amico Luigi Mariano.
Anche Song For Orphans ha la morte nel titolo. Questi giovani ragazzi rimasti orfani (“i figli cercano i padri, ma i padri non ci sono più, le anime perdute cercano salvatori, ma i salvatori non durano a lungo”) vagano insieme a una pletora di altri personaggi, smarriti e disillusi. Una canzone in cui il giovane Springsteen sembra del tutto disincantato dal mondo dello spettacolo che, invece, poi gli sorriderà. E sembra che i giovani orfani non abbiano perso fisicamente i genitori ma, più metaforicamente, siano privi di una guida, di valori, di riferimenti. Non resta loro che vagare in questa Babele confusa e spaventosa.
If I Was The Priest è una feroce allegoria del paradiso dei cattolici, nel quale il narratore è un prete pistolero che assalta le diligenze, adescato nientemeno che da Gesù in persona, nelle vesti di uno sceriffo malvagio e corrotto. La Vergine Maria è una barista prostituta e lo Spirito Santo gestisce il bordello. Questa canzone è la sorellina di Lost In The Flood, che finirà nel primo album, Greetings From Asbury Park, New Jersey. In entrambe Bruce si ribella in modo decisamente profanatorio alla morale cattolica, impostagli nell’ambiente in cui è cresciuto.
Sul lato musicale sembra quasi che siano le nuove canzoni ad adattare il proprio sound alle tre vecchie perle, e non viceversa. Il risultato è entusiasmante: l’album scorre lineare, senza che quel mezzo secolo lasci particolare traccia di interruzioni e pause forzate. Certo sentire quell’armonica a bocca stagliarsi sopra splendidi tappeti di pianoforte e organo e quel binomio di voci che insieme diventano magia (Bruce e Miami Steve Van Zandt) è una fortissima emozione. Sapere che tutto questo è stato registrato solo una manciata di mesi fa rende tutto ancora più stupefacente. In fondo è il messaggio che scorre in tutto il disco: “Noi siamo ancora qui che facciamo rock. E lo facciamo bene. Che lo sappiano tutti. Che lo sappia il Covid. Che lo sappia la morte.”
Che bella recensione, ispirata e sentita, congratulazioni! Così diversa da quanto pubblicato su qualche mensile nazionale solo per mettere Bruce in copertina. Bravo Dario!
da sentire sempe e comunque!. Bravo Dario!